Articoli Museo Berto Barbarani
Quél dito da Berto Barbarani e dai so amiçi. Piassa Erbe vista dal grande Berto Barbarani. Sémo nel 1910 quando l'è stà inserì tra i monumenti nassionali da conservàr; par questo motivo le case del "Ghéto" che se specia ne la piassa iè stà salvà, mentre quéle più distanti, butà zò par far posto al super-cine. Par molti ani Berto e Angelo Dall'Oca Bianca i s'à messi a difesa de Piassa Erbe sensa èssar 'scoltà. Par fortuna el riconossimento da parte del Governo el g'a messo fine a la questión. Catémo Berto come cronista del "Gazzettino" magari par le strade de Avio, parlando in léngua italica, mentre un articolo de l'amigo Renato Simoni el parla de lu su la "Domenica del Corriere". Tra le curiosità anca el segreto su come cusinàr el sèleno-rava a la veronese.
ARTICOLI:
- UNA PIAZZA BEN DIFESA E MAL INTESA
- BERTO A PASSO RESIA
- IN VAL D'ADIGE
- AVIO "REDENTA" UNA DOMENICA AD AVIO
- BERTO BARBARANI E LA VALPOLICELLA
- IN VALPOLICELLA, IMPRESSIONI, BOZZETTI, VERSI
- SEDANO RAPA
- RUGGERO DONDE' E BARBARANI
- BERTO E LA VIOLENSA SU LE DONE
- 500 CAVALIERI IN VAL D'ALPÓN
- OMO E CAN, BUBÙ E SIÓR MOMO
- EL MAR E BERTO
- BERTO E LA BENEFICENSA
UNA PIAZZA BEN DIFESA E MAL INTESA
Da l'articolo de "La Lettura, rivista mensile del Corriere della Sera del 1911"
La gran Verona. Sulla balaustra della loggia di palazzo Maffei, in fondo alla Piazza delle Erbe a verona, le statue olimpiche di Ercole, Giove, Venere, Mercurio, Apollo e Minerva, sembrano danzare nel cielo sereno, purificato dalla ventilazione dell’Adige, con vezzosi e curiosi atteggiamenti e svolazzi pieni di grazia e di protezione da palcoscenico. La sola scultura di Ercole, posa sulla clava il braccio destro titanico ed accantonata lassù (a sinistra del borghese che guarda), lassù all’ombra della torre del Gardello, vedova della campana di Magister Jacopus, sembrami il fratello maggiore di quell’Angelo Dall’Oca Bianca, che provvisto per abitudine di una simile clava, ha lo stesso fare potente di difendere la nostra piazza da coloro che le vogliono far mutare di moda e di carattere. Il guardaportone del palazzo Maffei è il leone di San Marco la cui coda, si proietta in ombra sulla facciata del palazzo; Ercole, Dall’Oca Bianca (v.foto), il leone di San Marco…
Non si potrà dire che la piazza delle Erbe sia mal guardata! A destra, corrono verso la Torre dei Lamberti una serie di terrazze pittoresche, una galleria di affreschi della scuola di Giulio Romano. corrono verso la Torre dei Lamberti una serie di terrazze pittoresche, una galleria di affreschi della scuola di Giulio Romano; oltre una scalata di giganti, un po’ di tutto,: la Liberalità, la Prudenza, l’Ignoranza, l’Invidia, tutte brave figure allegoriche di grandi dimensioni. – I numerosi proprietari della "casa dei Mazzanti", non hanno avuto scrupolo alcuno di sfondare con una porta di terrazza la pancia della Liberalità o troncare una gamba alla Prudenza perché non cammini troppo in fretta, pur di far trionfare l’Ignoranza e l’invidia sotto i vigili tetti spioventi del quattrocento, che proteggono bonariamente i capricci di questi comodi inquilini e sorridono quando se li vedono venir fuori, magari in berretta da notte, dalla mammella di un simbolo o dalle reni di un gigante, per dar acqua ai fiori.
Ed ecco l’occhio elevarsi su per la torre del Comune, gemmata dagli stemmi dei podestà, l’unico campanile laico, che spande, per virtù del suo arringo (Il Rengo), la rugiada sonora del tempo che passa, sulla fantasmagoria degli ombrelloni provati alla vita gastronomica, al vento, alla pioggia, alle polemiche. Il lato sinistro della piazza, svolgesi in una lunga, superbamente varia, ininterrotta processione di alte case schiettamente popolari, autentiche cittadine del centro, le quali continuando per via Cappello e fatto un onorevole inchino alla casa di Giulietta, giungono fino ai ponti e sembrano non finire mai. In questa processione, dopo il mal restauro della casa dei Mercanti sono designate col titolo di catapecchie, casupole, focolari famigerati d’infezione, le pellegrine del Ghetto! Queste casupole la più piccola conta la bellezza di sette piani e parla già il gergo della piazza. E’ un complesso simpatico, armonioso di torricelle magnificamente macchiate di quel colore che domina nelle grandi cucine patriarcali e rotto da barbagli di vetrate, come i piatti di stagno sulle scansie; rassomigliano molto alla piacevole congerie delle case di Santo Stefano.
Queste sventurate casette, che mangiano gli gnocchi in testa a tre quarti di Verona, sono, a parer mio, le cenerentole della piazza, le più buone, le più sincere della famiglia. Contro di esse si sono appuntite le ire. Han tentato di demolirle per piantarvi un politeama o un palazzo per la Cassa di Risparmio. Le hanno accusate di essere sudicie, di esser nidi d’infezioni! Si è inneggiato alla loro morte e alla gloria d’un igienico sventramento. Ma sono sempre state protette dal nostro Dall’Oca, il quale, come ha promesso, saprà certo adornarle di quella veste antica che le renderà degne di mantener sempre più alto l’altissimo onore d’essere state dischiarate da pochi mesi, con tutto il resto della famiglia, un monumento nazionale! Politeama, sventramento, minaccia di epidemie, bisogno di respirare aria di palazzi e di milioni profusi in edilizia.
Che bisogno ‘è di buttar giù le casette…. grattanuvole, prospettanti sulla piazza, le prime che respirano l’aria dei nostri colli e fanno a tu per tu con l’orologio della torre comunale? Lo sventramento deve essere fatto nel ghetto interno e da quello salteranno fuori tanti motivi di decorazione e ferri battuti e ceselli da inferiate e balconcelli a pancia, ecc., ecc., che troveranno onorevole e più arioso posto sulla piazza, moltiplicandone la sua varietà che è sitibonda di cose piccole e graziose, Ma perché credete che il governo abbia dichiarato monumento nazionale la vostra piazza? Perché nessuno la tocchi, perché se la toccassero, invece di un allegro sorriso di riconoscenza, la grande fisonomia estetica subirebbe il ridicolo di una < class="mce-object mce-object-undefined">smorfietta sul genere di quella Madonna Verona da poi che le hanno cambiata la testa. Perché, dopo tutto, il governo, come si degna di intervenire nelle questioni amministrative dei Comuni anche i più grandi, meglio ancora se eleva la sua buona volontà alla protezione di questi veri templi d’arte, all’aria aperta. tutto il mondo artistico che vede posto in valore nei tesori d’Italia un gioiello di più e non versa certo lagrime sulla sorte di quei proprietari….proprietari di case che protestano perché i loro immobili sono stati dichiarati belli nel bello e degni d’essere mantenuti sani, puliti internamente e concordi nella linea ascensionale verso un orizzonte idealmente fatale, come tutte le costellazioni dell’universo. Con questo decreto ministeriale, che lega Verona alla più degna e preziosa delle servitù, speriamo che siano finite tutte le questioni che tra la vita fantastica e lo zodiaco di piazza Erbe appaiono ogni dieci anni, come le comete.
Ma purtroppo un tantino di strascico resterà sempre. E quando gli ombrelloni si chiudono al sonno, equilibrati sull’unica gamba a cassetta, le dice braccia raccolte sotto il bianco traliccio di tela, quando gli zampilli sonori della fontana di Madonna Verona conciliano il dormire a tutto l’accampamento, e la Berlina dà ricovero nel minuscolo atrio ad un gruppo di spazzacamini che sognano la fuliggine del loro martirio, il contorno superiore del monumento collettivo si profila sempre più bizzarro e medioevale in un cielo di leggenda. Le case tutte serrate (salvo qualche barlume giallo di veglia) stanche del piccolo commercio cotidiano tornano al passato. Ed i fantasmi anglo-veronesi di Guglielmo Shakespeare si raccolgono in piazza. Berto Barbarani
BERTO A PASSO RESIA
(Patrie e Colonie, rivista 1914, anno 3 semestre 2)
"Qui nasce l'Adige, ed è veramente triste, di essere arrivato fin qua, in pellegrinaggio di riconoscenza, per trovare un amico che appena nasce se ne va, come dicendo: caro mio, dopo tutto, se anche restavi a casa tua, a Verona io sarei passato di là con la mia fiumana di musica e ti avrei salutato".. Berto Barbarani
IN VAL D'ADIGE
Articolo per la Rivista "La Lettura" 'ndoe se scoèrze quando l'è nata la poesia "Val d'Adese" - Articolo publicà el giorno 15 deçémbre 1915. Se pol scargarlo da la biblioteca Braidense de Milàn o dal sito internetculturale.it
Dallo spirito della Val Policella, rosseggiante d'uve, di marmi e di chiesette romaniche, dal piccolo paradiso autunnale, dove gli Arusnati sul bel colle di San Giorgio (lngana-poltron) aveano edificato un tempietto alla Dea Udisna (la romana Cibele) entriamo di botto nelle gole strette e petrose di Val d'Adige. È quella parte di valle che più si sente, si vede e ci impaura di un paesaggio aspro, rude e difficile; grigio come la divjsa dei nostri soldati, ma avvalorato da una grande aria ariostesca di fortificazioni, di vigili custodi di una porta d'Italia fra le più battute e contrastate nelle violenze della Storia. È il tratto che dalla Chiusa d'Adige porta fino ad Ala. Saliamo dolcemente in povera vettura, la comoda e bianca strada napoleonica, su per la riva sinistra del fiume. L'Adige, dopo aver abbandonato a Rovereto regioni magnifiche ed oppresse, si svolge e divaga come balordo di gioia bussando e "lustrando le scarpe ai monti che ghe dà la strada" tra due alte ed ininterrotte cortine di roccia viva in alto, fin a che nell'orrido della Chiusa:- rallenta e sosta, come a riprendere uno slancio dì entrata trionfale nella vita popolata ed ubertosa del Veronese!
"Quel l'è Volargne e quel l'è Domeliare,
e Sant'Ambrogio de Valpolesèla,
coi marmi rossi de le so preare....!"
"È poco discosto da Volargne (la maggior frazione del Comune di Dolcè) che si affaccia il miracolo del fiume, quando irrompe argentato, rapido e spumeggiante dalle ultime strettoie. Da un lato, sulle alte rive moreniche dette da quei di Rivoli i "Colli Romani" vicino alla valletta del Tasso, si profilano rare, ma evidenti nel sol di mattina, bianche casette e brevi compagnie di cipressi. Dall'altro, alla mia destra, i vigneti della "Grola", ben piantati sulle muraglie rosse di quel di Sant'Ambrogio e Stramonte, emergono, come da una gran soglia di marmo sul quale sia propiziato il principe dei vini della Val Policella. E appena entrati nel mistero d'ombra della Chiusa, ecco pararsi, in minaccia d'inibizione gigante, una triplice parete di roccia alta e massiccia che sa di incantesimo. Dicono che nei tempi andati, prima della ferrovia. un pellegrino, giunto a questo punto diremo così interrogativo, avesse girato direzione al suo fardello, raccontando a casa d'esser dovuto tornar indietro dopo aver visto la "fine del mondo". Ma noi, che ci atteniamo all'Adige come ad un fiume d'Arianna proseguiamo imperterriti per la via che mena alla nobile città di Trento. Ma guarda quel paesino abbandonato sulla riva opposta, sotto la Rocca, che sembra abbia smarrito la via e stia lì timidetto e pauroso in attesa di un pietoso traghetto. Come si chiama?
"Quel l'è Gaion, da la baréta bianca,
col so camposantin, che el par che'l beva,
l'aqua fresca de l'Adese e 'l riceva,
tuto quel sol che da Ciusa manca..."
In quella chiesetta, il cardinale Carlo Borromeo celebrò messa durante un suo viaggio al Concilio; e mi par ancora di vederlo tutto vestito di rosso:
"Quando le mule, col vestito bianco
portava a spasso i vescovi de Trento".
E la vicina Rivoli, per aver per aver dato da dormire una sola notte al Santo, diventò di punto in bianco parrocchia. Ma come rendere la solennità grandiosa e profonda, il mistero di questa sublime breccia segata dal fato millenario di un ghiacciaio?
"Come de scrivere la pace di codesta enorme caverna aperta, che niun soffio di modernità (la ferro via anzi l'abbella) e nemmeno l'ultimo sconcio utile di una presa d'aqua per irrigazione, han
potuto ferire o sminuire di fascino? Mi aiuterò con versi:
"L'Adese in corsa, qua, par che el se incanta
come un vacio pastor che se indormeia.
soto la capa del camin che sfanta
tuti i dolori de la so fameia,
e gnanca el grio par no sveiarlo el canta…
Né, la paura de sti monti a pico
Né, la ferata che ghe sbrissia in fianco
Né, le sfuriade che ghe bate el vento,
Né, le memorie del bel tempo antico…"
I due ultimi versi li abbiamo lasciati più sopra a Gaion, col
cardinale. Ora passano su per la Chiusa i treni dei viaggiatori con le griglie chiuse. Passano composti come di tanti gabbioni rasente la muraglia, cauti e prudenti quasi per non farsi scorgere. Rallentano un poco al forte di sbarramento. Calano improvvisamente i finestrini, delle braccia si sporgono e piovono giornali, riviste, messi toscani, specchietti di latta, su di una folla di soldati acclamanti e che attendono in allegria curiosa il treno, per spogliarlo di tutte le cose superflue e riporle nell'armadio della loro noia trepidante d'assalto. Al termine della Chiusa, ove la gola si rischiara, levasi nel mezzo della via un palo con tanto di intimazione spartana: Alt. Non c'è che da obbedire e fermarsi alla graziosa ed originale cantina di Betagno, lunga e bassa, che giace a fior della corrente e sparisce quasi sotto il fogliame. Dentro vi sono locali minuscoli dove stanno a mala pena i soldati a sbrigare la gamella e la posta di casa su tavole, e su rozze banche. Di fronte a noi spunta soltanto il campaniletto di Ceraino, sepolto in mezzo alle case, che alla lor volta si appiattano dietro agli alberi. Rivoli non si vede, ma noi ci troviamo proprio sotto la sua rocca dove restano lassù, avanzi di officine preistoriche, di opere romane di castelli e di castellane (quella di Rivoli)- Qui il sole batte un'ora sola di inverno e cinque d'estate. Qui il girono e notte cantano i passeri solitari ed il vento vi è fortissimo e costante. Proseguendo in salita forte verso Ceraino il panorama si allarga. Si presenta in iscorcio tutto il dossone del Baldo, fino alle più alte vette. Ecco di fronte Rivoli dai colli tumultuosi e ribollenti, il paese di Sant'Isidoro, provato alla fortuna napoleonica ed alle battaglie per l'Indipendenza. Dalla graziosa linea di paesaggio profilata netta nel cielo del grande anfiteatro morenico di Caprino, che tanto ha stupito il geologo Stoppani, la collina disgrada lussureggiante di vegetazione fino all'Adige che sta eseguendo una curva maestosa e
"le onde,
soto el sol, le te par poledre bionde
che salta intorno a la cavalarissa".
Ceraino è un vecchio ritrovo turistico, che dalle rocce boscose di Stramonte cava e raccoglie in piccole grotte le vene d'aria, che mantengono freschissima la sua birra. Qui come in altri luoghi della valalta, si scopron vecchi e profondi porticati con scale a giorno e vive traccie di affreschi e portoni borchiati e cadenti, che ricordano il vecchio feudalismo riverasco del fiume. Da Ceraino a Dolcè è breve il tratto. La strada di destra contro fiume procede silenziosa all'ombra della sengia del Monte Pastello, con alte muraglie di pietra ferrigna. Sulla opposta riva pesano le roccie del Magnone, sopra i ruderi della storica guglia Napoleonica e il paesetto di Canal, dalla quadra torretta romanica ed un folto bosco di castagni in parte. Della gulia non restano che alcune pietre corrose del basamento e pochi cipressi magri e spaventati d'intorno. Il resto è tutto lassù a Rivoli a far da stipiti, da porticati, da gradini, da tavoli ecc. Le pietre del rivestimento furono adoperate per fare i cippi vespasiani del Duomo di Cologna Veneta. Ciò nonostante, il sito è molto poetico, malinconico e pensare. Proseguendo la nostra strada, all'altezza del passo volante della Perarola, troviamo il capitello di Sant'Antonio. Sacro ai Sateri che venivan giù con le zattere dal Trentino. Dolcè! Sembra che questo paese di pace e di ritiro, abbìa come staccato dal grosso delle case, chiesa e campaniletto per piantarli laggiù a mo' di sentinella in mezzo alla vallata a spiare.
È questa una di quelle:
"Cèse a remengo, quasi senza intrada"
Questo uno di quei:
"Campanileti che no g'à pensieri,
picoli svelti pronti a la sonada,
come 'na compagnia de bersalieri!"
Val la pena di soffermarsi un poco su questo paesaggio che per fatto apposta per farvi giuocar dentro delle figurine. Dal paese di Dolcè a piè del monte del Pastello si stacca una stradetta che mena alla fermata della ferrovia e mette capo ad un folto ciuffo di catalpe, che sono una delizia d'ombria. Sotto, due carabinieri. A fianco della casa cantoniera un camposanto breve ed abbandonato senza croci, qualche lapide corrosa e con qualche cantuccio coltivato. È il vivaio dei verdi, per il camposanto nuovo. C'è il suo cancelletto d'angolo dove l'immagine se ne è volata in cielo. La chiesetta bianca e barocca ha il cornicione decorato da una riga di passerotti. Il campanile fu scappucciato dal fulmine, ed il sagrato verde ha una cinta di muretta in pietra, sagomata con una certa grazia, rococò. Poi la canonica comoda, con un pergolato fitto ed in fondo una porta color sangue di drago, preti e ragazzi. La stradetta continua sempre più in basso fino alla riva dell'Adige al Ramon, che corre al suon di panni battuti dalle lavandaie. Da questa riva un ponticello di legno porta all'Ischia, un isolotto, che giace nel bel mezzo del fiume. Costeggiando il Ramon sull'argine erboso, si giunge agli "Opifici" pomposo nome che si dà ad un paio di molini. Qui il Ramon forma cascata ed il suo canto si eleva di parecchi toni. Davanti a questo paesaggio semplice, a questo casello col casellante e la bandierina rossa, passa su e giù il treno, che visto dalle vette della valle par un giocattolo che corra sopra uno scacchiere colorato.
Sul paese composto quasi tutto di antichi ma comodi palazzotti e poche case rustiche e pittoresche su per le falde del monte Pastello, gravita quasi minacciosa la Sengia del medesimo, che ha l'ingrata funzione di tener indietro il sole per un paio d'ore o tre, condannando così parte degli abitanti ad allevarsi poltroni. I palazzotti hanno tutti il loro bravo stemma. Quello del sindaco Ferrante Capetti, per esempio, ha una capa, una conchiglia; quello dei Ruzzenenti un pomo rùseno, un pomo della ruggine, e così via. Dov'è l'attuale Municipio, c'era un grande albergo di posta. Dicono che appunto per questo fino a molti anni fa i muli ed i cavalli della vallata voltassero strada e urtassero contro l'albo pretorio. Ho visto dei quadri antichi rappresentanti stemmi w visitatori illustri dell'albergo: per esempio: "In questa casa alloggiò Maria Elisabetta principessa di Wolfenbuttel andando in Ispagna moglie del Re Carlo II; 27 maggio 1708". Così la duchessa Benedetta Hannover andando in guerra e l'Elettrice Palatina Anna Luisa di Toscana nel suo ritorno in Italia, ecc. Pure essendo questa una valle che su beve tutto il succo delle proprie vigne, vi si accentua una vigoria di salute, una tensione di lavoro boschivo, una longevità notevole. Si beve ma si campa un pezzo. Molti anni or sono un certo Centurione cantoniere precipita in un fosso discretamente provvisto d'acqua gelata. Centurione, che aveva ben festeggiato la domenica, annaspa, annaspa, si lamenta debolmente, ma si dispone anche a star lì tutta la notte. Passano due carabinieri, intraprendono l'opera generosa di salvataggio. Ma sono sempre carabinieri! - Pian, pian, co le mane! grida Centurione - se no mi stago anca qua! E poiché nell'essere issato sul ciglio della strada, un ramo di spini lo teneva per la giacchetta, l'altro si volge arrabbiato: - Tira anca ti cagna dall'ostrega! Da Dolcè a Peri c'è un bel tratto, quasi otto chilometri. E per questo tragitto uniforme e semiselvaggio, che si sente tutta la profondità e la solitudine della vallata. Qui:
"La val se destende,
longa e scura su l'Adese che core
e de quel passo che l'ombria se arende
un sol tardivo va basar le fiore…
No ghè palassi parché el sior no spende
ma pore case e musi de pastore,
e boschi e sassi, e sengie che no rende
e in mèso ai boschi una canson che more…
O barcariol, bel barcariol de Trento,
imprestème la vostra barchetina…"
La canzone si perde su per i boschi, invocando non invano… L'Adige seconda questi rumori in sordina. Ogni qual tratto un treno si annuncia lontano, si avvicina, vi butta una ventata in faccia e poi sparisce. Tutto ripiomba nel silenzio. Né, sull'altra riva, le cose vanno diversamente. Dall'osteria delle Zuane, dove due grossi blocchi della storica guglia fungono da banchine; giù per la guglia stessa e Incanàl e Preaboco e la Corvara è tutta una sequela di silenzi in riva al fiume. Manco male Brentino:
"Quel l'è Brentìn, che vive de arie sane,
dentro un nio de boscheti che lo veste,
coi pitari che canta da le feste
e i prà che beve nele so fontane".
Paese allegro ai suoi tempi Brentino, quando fervevano i pellegrinaggi su alla Madonna, che si legge ancora qualche scritta "Bier-Cabaret". Ora è malinconico ed ammonitore, e prima di entrare in paese sopra una gran croce di pietra grigia e sotto un vedi mano scolpito, si legge:
"E questa croce e questa man vi addita, quanto sia breve il corso della vita al Cimitero…"
Il campanile di Brentino ha la cupola lustra, argentea, che s'eleva proprio sotto il monte Lasta, pari pari con la roccia a picco, e sembra sia arrivato su dalla riva dell'Adige trascinandosi dietro tutte le case del paese, quasi per sottrarle alla furia della fiumana. Ma noi ci avviciniamo a poco a poco alla visione della reginetta della Valle e degli eserciti, alla Madonna della Corona… lassù nella val del Pissote sopra Brentino dove:
"In sima un crepo che te spaca el monte
par dar passo ai gran comodi de un progno,
che move rude e fa cantar molini…
Su da una scala de mile scalini,
taià nel vivo e che sta su per sogno
na madoneta fa le grassie sconte".
Ma non è il prodigio della scala che lo voglio descrivere, bensì il miracolo di quelle casette lassù, che sognano nel mio sogno, che sono un paradosso nella vita, un giocattolo per l'estetica, un nido per l'achitettura; che appollaiate e nascoste lassù come le difese nazionali alle porte d'Italia, hanno pure la loro forza, costano una somma di fatica da schiavi, hanno una religione impastata di fede e di superstizione, sono il miraggio di un voto e di una penitenza da fachiri, sono i baluardi primitivi della Chiesa. Anch'io sogno di questi bei santuarietti, ma
"...fate cento ciesoline d'oro
dessemenade in mèso a i monti e atente
a cantar gloria in punto a mezodì,
fra marmi e sede del più bel laoro
piantarghe drento a benedir la gente
quela Madona che me intendo mi!..."
Alla Corona, si combatté nel '48 e c'è ancora una fontana detta dell'Indipendenza. Ma il santuario sparisce dietro gli speroni del monte Festa ed eccoci a Peri, che ebbe qualche anno di vita internazionale col trasporto della Dogana di Ala. Tra il paese che si arrampica su per le prime balze del Corno d'Aquilio, incontro ad un rio perenne e sonoro e la stazione in basso, corre una strada larga, bianca e piana circoscritta in fondo da un gran ciuffo verde che sembra un angolo di parco. Un po' a diporto verso il confine, il panorama si presenta più popolato e più vario, con l'Adige che passa in vista di tre paesetti, gli ultimi della valle:
"Quel l'è Beluno in testa a la valada
col sol d'Italia che ghe bate ai veri….
quel l'è Rivalta de fassada a Peri…"
E Ossenigo, patria di Turrisendo, è l'ultimo paesello della sinistra d'Adige. Qui la carrozzella si sofferma davanti a "du restei" due cancelli di camposanto.
"Qua un ciacolàr de passare contente
su per le crosse le canta in cento:
quanta gente che more quanta gente!
O bel camposantin, perso par la strada
morir onesti e capitarte drento,
no, la morte no l'è sta gran secada…"
No, e specialmente in gloria di guerra, se cader si dovesse, accanto ad uno di questi poetici recinti che sono come le trincee della morte.
APPENDICE
Da Peri, sono andato una domenica ad Avio pochi giorni dopo la sua occupazione; ed era la mia prima visita a quel paese. Si viaggiava con una carrozzella, che pareva messa insieme così lla svelta dopo una disastrosa caduta in fondo al burrone. Ero superbo come un fiorentino antico tanto più che mi trovavo in mezzo a due… Medici, da campo. la cavalla, Sarah, trottava a malincuore sulla nuova terra italiana. Certo, doveva essere di sangue ungherese. A due passi oltre il vecchio confine (aquila tedesca - 1751 - Leone di San Marco) giaceva abbandonato ignominiosamente, lungo la fossetta della siepe, il primo morto della prima fazione, il palo giallo-nero sradicato con una certa grazia rabbiosa. - Bella operazione! - esclama il medico di sinistra che era anche dentista… A Borghetto, gli abitanti apparivano un poco incantati. Sulla fronte di un palazzo, la caserma di capitaneria, c'era un occhio ciclopico non praticato mai da alcun capomastro. Una palla di cannone… - Bel colpo!... - esclama il medico di destra, che faceva l'oculista!. Al ponte di Avio, che unisce il Vò destro con quello sinistro, dopo le riparazioni, par di correre su dei rulli di legno. L'assito del ponte è composto per tutta la lunghezza da una serie compatta di travi mobili, così, che la carrozzella avanza come sopra una tastiera di timpani in modo (è un po' difficile esprimersi) che ogni travicello si muove e manda un suono che sta fra un colpo di grancassa e il mal di mare. Ad Avio la parrocchiale del settecento sorge in piazzetta San Rocco, che ha un'aria raccolta di conventualità gialla a finestre chiuse. Sulla porta del campanile è segnato il numero dei tocchi che si devono dare in caso d'incendio, nelle diverse fazioni. La piazza ha due meridiane, una per semestre. Il municipio porta un bel poggiolo a pancia in ferro battuto con tanto di lampione in bilico fra due bandiere. Vie lunghe e strette di gran sapore veneto, fontane di pietra viva classicamente sagomate da cui zampillano le sorgive perenni del Baldo. Case comode ed agiate sulla cui facciata sorridono spesso le madonne col bambino e i due santi preferiti ad Avio: San Rocco e San Sebastiano, capitelli compositi e gustosi, frazioni ampie e solatie legate fra di esse dalla carrozzabile in basso a fior dell'Adige ed in alto dall'antica e storica strada romana e barbarica. Ecco Avio, nella sua caratteristica linea i cui due capi sono tenuti dalla antica e poetica Pieve romanica e da un altrettanto vetusto e fantastico castello di Castelbarco. La Pieve vecchia ha un campanile del IX secolo ed è contornata da poche casette pastorizie su per l'Aviana popolata di molini. Sono famigliari in quella solitudine i tocchi della antica campana, il corno del capraio, e il rumor del torrente Aviana che sbocca subito in Adige.
Il castello di Castelbarco, il più grande forse del Trentino, è una massa fantastica di torri e cinte piantate solidamente sul culmine di un colle. Le mura sono villose d'edera folta, ed il gran prato d'attorno fa spiccare ancor più la tinta livida del castello scoperchiato dagli stessi ultimi dei Castelbarco in principio del secolo scorso, che lo spogliarono di tutto il verosimile per rifarsi un altro castello sul lago di Loppio, dopo Mori. Sulla torre più alta c'era la campana dell'"arringo" "el rengo" per i consigli e per le esecuzioni. Una torre lì vicino, si chiama appunto "picadora". C'era da ballare per benino là per aria. Scoperchiato il castello, tutte le preziose pitture trecentesche nella chiesetta, sulla torre, ed i giuochi guerreschi tanto bene illustrati da Gino Fogolari se ne andarono a poco a poco. Ed ora si gira tra fantasmagorie di stanze signorili, quelle del dinasta, dove s'intravvedono sotto la muffa striature ancor vivaci di tappezzeria dipinta a righe sanguigne, a fascie, ad arabeschi, a fiorami. In giro fra le madonnine sbiadite e fra certi soldatacci dell'epoca, che giuocano a tutti i ludi guerreschi e portano sullo scudo dei motti curiosi come questo; "Sia che la po'" - vada come vuole; e le principali di queste faccie, come appunto osserva il Fogolari, hanno molta affinità di espressione col famoso affresco di San Fermo Maggiore a Verona, che rappresenta il podestà Guglielmo Castelbarco fondatore del castello e podestà di Verona che leva in senso di offerta il modello della chiesa. L'attuale sindaco di Avio, Beno Perotti, uno studioso di cose aviane, affermò che Dante fu ospite di Guglielmo Castelbarco anche in questa residenza regale come lo fu Lizzana… Ma Dante, come Napoleone, deve aver dormito un po' da per tutto in Val D'Adige! Berto Barbarani
AVIO "REDENTA" UNA DOMENICA AD AVIO
Berto Barbarani cronista del "Gazzettino"
Articolo pubblicato il giorno 9 luglio 1915, Berto inviato ad Avio percorrendo il tracciato dell'attuale statale del Brennero. Un ringraziamento all'Associazione Culturale "I Quattro Vicariati" di Ala per la "colaborassiòn" e la "publicassiòn" de l'articolo sul semestrale 107. Sono partito stamane da Peri, alla conquista di un paese mai visto: Avio.
Viaggiavo con una carrozzella che pareva messa così alla svelta, dopo una disastrosa caduta nel fondo di un burrone, ed ero superbo come un fiorentino antico, tanto più che mi trovavo in mezzo a due... medici // Il riferimento ironico è alla famiglia fiorentina dei de' Medici // . La cavalla che ci trainava si chiamava Sarah e trottava a malincuore sopra la nuova strada italiana. Certo doveva essere di sangue ungherese! A due passi dal vecchio confine che da una parte portava scolpita l'aquila tedesca e la data 1754 e dall'altra il leone di San Marco, la cavalla Sarah fa uno scarto improvviso. Gli è che ha intuito a destra un ammasso di sacchi pieni di terra. Sono avanzi della prima rudimentale, trincea che sbarrava la strada quella tal mattina...Brrr...! //Barbarani si riferisce al 27 maggio 1915 quando le truppe italiane passarono il confine dirette a nord.// Lì vicino, giace abbandonato, ignominiosiamente, il palo giallo e nero sradicato con una certa grazia rabbiosa. "Bella operazione!" esclama il medico di sinistra, che è anche dentista. A Borghetto, gli abitanti sembravano un poco incantati. Dalla cella campanaria della parrocchiale sventola timidamente una bandiera scolorita dalla pioggia, ed in fondo al paese si ammira un enorme buco fatto sulla facciata della capitaneria....Brrr...! "Bel colpo!" esclama il medico di destra.
Anche il ponte d'Avio, che unisce il Vò destro con quello sinistro, sembra incantato dopo la riparazione sollecita ed incredibile. Par di correre su dei "rugoli", dei rulli di legno. Il ponte è pavimentato per tutta la sua lunghezza da una serie compatta di travi mobili, così che la carrozzetta si avanza come sopra una tastiera in modo che (è un po' difficile l'esprimersi) ogni trave si muove e manda fuori un suono che sta fra un colpo di gran cassa e il mal di mare. Ma non si può negare che il ponte d'Avio così argutamente rimesso a posto non sia un ponte di...genio. // Chiaro il riferimento al Genio militare italiano che aveva ripristinato il ponte distrutto dagli austriaci in ritirata // Dal ponte dei due Vò si va in Piazza San Rocco, ad Avio, e questa piazza ha un'aria raccolta di conventualità gialla, a finestre chiuse. La parrocchiale del Settecento non conserva dell'antica chiesetta di San Rocco che un bassorilievo in pietra, murato nella parete a sera del battistero, ma i buoni fedeli di Avio posso avviare le loro orazioni nel vasto ambiente della chiesa, tra una festa di dipinti e stucchi e dorature, in armonia simpatica tra la chiesa e il teatro lirico. L'organo è bello, ricco e prezioso di costruzione e modernità acustica eccellenti. Il pulpito si intona bene con lo stile dell'organo. Non so se i preposti siano altrettanto belli e intonati. Sulla porta del campanile, si legge la seguente scritta ammonitrice "segnali di incendio" per le frazioni del comune.
Mama - Fontan un tocco continuato.
Vò sinistro - Vo destro tre tocchi continuati.
Masi - San Leonardo due tocchi continuati.
Ischia Forana - Campiglio quattro tocchi continuati.
Sabbionara - Sant'Antonio cinque tocchi continuati.
Avio - Valli sei tocchi continuati.
Di fronte alla chiesa su di una palazzina abbiamo il lusso di due meridiane, una per l'Inverno e la Primavera e l'altra per l'Estate e l'Autunno. Sono meridiane che portano una firma d'autore e lavorano puntualemente secondo i piani. La carrozzella imbocca la via del Municipio e si appiatta all'albergo della Concordia di San Valentino. Si sente, in quest'albergo consolato da un cortile e tavole ombreggiate, l'allegro ritorno dei padroni di casa, che l'avevano chiuso scappando a Verona ed il commento tranquillo dei valligiani appena usciti di chiesa per inneggiare al nuovo altare della patria, su cui si accesero i primi ceri in questo borgo, col vino bianco del paese. Il Municipio, di fronte, porta all'occhiello lo stemma comunale in alto rilievo con l oscudo sormontato da una corona araldica, la croce nel mezzo e sotto due ramoscelli di quercia. Sulla porta d'ingresso sporge un poggiolo a mancia in ferro battuto, sulla ringhiera del quale si regge appena in bilico un gran lanternone foggiato a guisa degli antichi lampioni, e parte per parte sporgono due bandiere, la tricolore e la comunale (una croce gialla in campo celeste). Sulle pietre d'impelliciatura a livello della strada appaiono i segni evidenti dell'incendio brutale del prezioso archivio, la vigilia dell'ingresso degli italiani.
Come fu già detto, il Municipio ora funziona da commissario regio un giovane e simpatico ufficiale, Alberto Brasavola, coadiuvato fortemente dal direttore del Municipio sig. Perotti Francesco (Beno n.d.a.), che fu per dieci anni podestà di Avio, di cui si conosce profondamente le vicende, e ha ben nota fama di studioso modesto e diligente. In Municipio apprendo che di tutta la popolazione d'Avio (3400 abitanti) erano chiamate sotto le armi dai 18 ai 50 anni cinquecento persone circa. Di questi 50 circa disertori o in America e cinquanta passati nel regno (d'Italia n.d.a.). All'uscire dal Municipio incontro l'amico Arturo Angelini, che mi dice: "Stamane sono passati cantando i volontari alpini veronesi. Adesso stanno rampicandosi su per il Baldo". Berto Barbarani
BERTO BARBARANI E LA VALPOLICELLA (Valpolesèla)
Articolo de Giannetto Bongiovanni - Febràr 1927
Il passeggero che scende alla cara turrita Verona – così bella tra il curvo fiume e il diadema dei monti, ricca di marmi e di sole – se ha la fortuna di conoscer da vicino Berto, il dolce aedo dell’ “Adese che va” trova subito onesta e calda accoglienza amicale. L’arguto volto, dove gli occhi malinconici con un raggio candido e blando di malizia tutta veronese hanno lume di bontà; la barba d’ebano con qualche indiscrezione argentea (ahi Berto, è un pezzo che l’Adese che va “in çerca de paesi e de çità”, e molta ne passò, d’acqua sotto il ponte “de la Piera” da che ti volli bene!), la persona tutta, esprimono la gioia sincera del fratello che trova il fratello. Gioia non rumorosa ma neanche tranquilla. La mano quasi feminea fa un gesto largo, il viso ride e il dialetto armonioso e sonoro s’espande in esclamazioni ad interiezioni festevoli, sin che un “taglio” di bianco secco – suppongo che siano le undici e mezzo, l’ora d’oro per Verona d’oro, e di trovarci da Vitale Sterzi – funge l’aperitivo. Poi, a braccetto, s’attraversa Piazza Erbe tutta sonante e fervente di vita, sin che s’arriva da Valle, in prossimità del fiume. “Da Valle”, - una pampinea vite v’accoglie alla porta – è un ostaria che Hans Barth non sdegnerebbe, e dove Catullo potrebbe segnare croci sul tavolo, intingendo le dita nel vin mero “da oto”: grazie alla Siora Amalia, vi si banchetta bene: cibi sani, onesti, casalinghi.
La brigata è gaia: i misteri della cucina non sono misteri perché le pentole borbottano sotto il capace camino davanti agli occhi del buongustaio: il vino nero scintilla nelle boccie tonde di vetro bianco: e Berto, beato, troneggia tra gli amici che gli fanno devota affettuosa rispettosa corona, non senza una punta d’orgoglio per averlo contubernale. Non è difficile che nei gai conversari, berto parli del “suo” Garda, o della “sua” Valpolicella, specie se una bottiglia venerabile di Recioto, “che l’è la fabrica de l’amicissia” imperi, amabile signoria, sulla tavola. Dico “sua” Valpolicella, non perché io mi sappia di Berto possessore di molti iugeri ben coltivati a vite, ma perché egli ne è il poeta – della valle e del vino - : ma perché i suoi amici amano convitarlo lassù, ed egli ogni anno, anzi più volte all’anno, d’inverno e d’estate, colla neve coi “ciari fior de mandolari” si reca a vagabondare della regione che ha inghirlandato di poesia. L’ambiente comitale della valle dalle molte cantine (policella) rallegra i cuori e concilia gli animi, dice il poeta in un breve saporitissimo libro, libero e sbarazzino, negato alle vetrine e al gran pubblico, ma donato con liberalità agli amici. Altro merito ancora ha la Valle: d’aver fatto scoprire – a chi non lo conosceva – un Barbarani prosatore (In Valpolicella, Prose e versi con illustr. di A.dall’Oca Bianca. In-16,pp.60. Verona, mondadori. Ediz. fuori commercio), con una lingua sua personalissima, talora scabra come le montagne amate dolce invece e morbida tal’altra, e intinta d’un grato sapore dialettale, che par quasi nasca dal profumo del celebre vino. Credo che mai ragione abbia trovato più amoroso descrittore e più arguto annotatore. umorismo tutto suo, snocciolato placidamente nelle battute sommesse.
Un cavallo che attende in stazione diventa “un coso nero fumigante che vuol essere un cavallo”; un the? ecco:”all’ora del the mi trovo seduto su una panca di legno vicino alla stufa accesa, con una saporita mortadella ai ferri davanti, due fettine di polentina di monte, abbrustolita (coi segni trasversali della graticola) e due cagnetti alle parti, uno vecchio ed uno giovane, che pendevano dalle mie labbra come se fossero a scuola di caccia”. Ci sono poi le oche di servizio che bevono le pozze d’acqua per far pulizia, i maialetti color rosa che folleggiano d’accordo tra loro, il gatto soriano che fa toeletta mentre un cane si lecca la coda e un cavallo “con la coperta a scacchi verde e gialli lo mirava, approvando”. Anche le cose hanno un’anima propria e suscitano notazioni curiose. Basta pensare ad una cucina campestre, tutta di marmo, dall’acquaio alla tavola ai reggi secchi e paioli: meno male che i rami e le pentole metton la nota calda in tanto freddo! Descrivendo la Madonna de la Salette, l’autore parla dei capitelli (piccoli santuari lungo le strade del santuario maggiore). “E’ la solita via crucis dei santuari, ed ogni capitello porta due stazioni come una città per bene”. Qui proprio lo vedete il sorriso contento di Berto: e più ancora quando vi racconta la tragicomica storia dei due pastorelli Marzemino e Melania…
Ma già l’autunno incalza, ed ecco il poeta coll’aureo Mecenate (…Sterzi) andar a “cargar el Recioto” e libarne la primizia – dopo un passo didascalico e curato sul modo di prepararlo….. e di berlo. Perché, e e lo dice credetegli, il Recioto è delizioso a bere dopo Natale “quando è ancora bambino come il nostro buon Gesù…” Landau chiuso, sonar di bubboli, o magari democratica carrettella che si ferma, docile, ad ogni frasca sporgente dai muri, che invita alle delizie. Il poeta non ama l’auto rumorosa, ma i cavalli maestosi ed annitrenti, che fan risonare nitidamente gli zoccoli sulle strade dure, mentre il paesaggio lento si dipana e si offre come una bella dama all’amatore giovane, o una capace tazza al bevitore fiero. Le fattorie antiche hanno ancora un sapore classico e nostalgico coi loro arnesi testimoni di usanze famigliari e vecchiotte, le quali man mano scomparendo, indugiano ancora per gioia dei laudatores temporis acti. O, lasciata la fattoria, se ne va in Villa “La Sorte” settecentesco edificio cui la malia di Dall’Oca Bianca dà un aspetto accogliente, mentre, sotto il disegno, due versi che direste presi da un vecchio almanacco di stagioni vi ninnano placidamente. “Sul cancel della Villa fanno di sentinella un pastorel d’Arcadia ed una pastorella”. San Giorgio Ingana-Poltron ha pure la sua parte: e il poeta salendo a piedi “come un vecchio Arusnate”, dice lui, trova campo di lasciar libera la fantasia. Veramente nelle pagine sembra che la vena gli gonfi il petto, tanto sono cantanti, piene di sole, di campane osannanti, - Corpus Domini, festa granda! – e sotto si stendono culture nel fervore della vicina maturità frumentaria.
Qui bisognerebbe lasciare la parola tutta a lui: immaginatevi il poeta in una domenica di sagra: acciottolii di piatti, odor d’arrosto al rosmarino, mentre all’ombra d’una pergola due donnette reduci dalla processione ancora velate da vergini, stendon la tovaglia sul desco, ed un arusnate moderno, più robusto che santo, vi posa sopra due gran caraffe di vino color chicchi di melograno. C’è anche il sagrestano celebre per le sue storie “una de fe e una da brodo” la levatrice che offre la bottiglia nel suo salotto, lieta dell’onore. Vedete la “Scena”? Ma il Sior Lissandro, figura centrale dell’ “autunnale classico” è indimenticabile: lui e la spedizione in calesse con la vispa muletta americana. Che avvneture di viaggio, per questi novelli argonauti che partono in cerca d’un pittore, muniti d’un tovagliolo contenente sei fringuelli amari per lo spuntino: tanto poi a Costermano troveranno un vinetto da mitigare la prosa dei fringuelli sul tamburo di due fette di polenta! (Nel ritorno si fermano ugualmente attratti dalla calamita dei bei ocioni delle ostesse ed anche da… salsicce novelle.
Perché, sicuro, questo e il piatto d’autunno che “allude alla comparsa d’uno dei più importanti padri coscritti della mite stagione: il porco!”). Peccato, ecco, non viaggiare con lui. Peccato non poter vedere i suoi occhi accendersi davanti ai paesaggi della terra che egli adora e lo adora: peccato non veder come, lungo le vie, le belle popolane lo salutino con gioia: “Sior Berto!” Perché tutte lo amano e sono orgogliose di lui: perché nell’anima inconscia del popolo, così piena di poesia, egli resta pur sempre il dolce aedo che diede anima calda e voce armoniosa alle cose, ai cieli, ai campi, alle case, ai ponti, alle torri, alle creature della sua terra. Peccato. Ma, ecco, ad interrompere il volo lirico, una sua parola saggia. “Magna, ciò, e bevi, po parlaremo de poesia!” Poesia anche questa, Berto. Mi sembra di udire il tuo ammonimento: “Una volta iniziati al silenzio oblioso di questa valletta ed alla contemplazione di cotanti misteri (le catacombe fresche fresche dove s’appiatta il vino) l’animo generoso apre chetamente la confidenza al vino buono e sprigiona il canto suo più intimo, nell’armonia di uno stomaco sano, con un cervello a posto, pronto a tutte le fantasie, ed alla estimazione delle cose più semplici”.
IN VALPOLICELLA, IMPRESSIONI, BOZZETTI, VERSI (Ed. Mondadori, Verona, 1925)
“Il Recioto classico ha per madrina l’uva migliore dei colli della Valpolicella, staccata dalla vigna, dopo il Rosario, così entro la seonda quindicina di ottobre. Quest’uva scelta fra certe speciali qualità (molinara, rossignola, rondinella ecc.) deve essere tolta dai filari dove i grappoli son più diradati ed hanno l’acino piccolo. Pulito per bene, si capisce, ogni grappolo dal marcio e dal secco, viene mutilato della parte meno matura ed appeso col gambo in giù a dei fili di ferro, o ben disposto sui graticci di canna in arieggiati granai, fino alla metà circa di novembre. Cosi i racimoli (in veronese: recie-recioto) si asciugano e condensano il loro succo, come in un alveare. Si pigia alla foggia antica, alla maniera che si fanno i versi, coi piedi; ed ai primi di dicembre si travasa il mosto dal tino, dentro fusti ristretti, dove va perfezionando la sua bollitura, per il solito vien commercializzato in febbraio-marzo. Chi ha fretta lo imbottiglia in aprile. Ma questo nettare è delizioso a bere dopo Natale, quando il “Recioto” è ancora bambino come il nostro buon Gesù”. Cit. in L. PARONETTO, Verona…, pp. 197 e 202. Cit. in L. PARONETTO, Verona…, pp. 197 e 202. Vedi anche G. MONTALDO, Amarone: dai vini retici fino ai giorni nostri, in AA.VV., Terra, uomini e passioni…, pp. 114-116. Si rimanda a L. PARONETTO, Verona…, pp. 182-205; G. SILVESTRI, op. cit., pp. 212-220.
SEDANO RAPA (Sèleno Rava) a la Barbarani
Riçeta de cusina veronese
Si prende una testa di sedano - rapa piuttosto grossa. Si monda bene e si taglia a fette dello spessore di uno scudo di vecchio conio. Per ogni due di queste, si insinua una fetta di prosciutto cotto e si salda attorno con filo. Così preparate si adagiano nel tegame di un soffritto di burro e cipolla che abbia già reso il biondo e dopo ben rosolate si unisce sugo di pomidoro, mezzo bicchiere di marsala vecchio, mezzo cucchiaio di farina. Giunto il tutto a lenta condensazione e cottura si serve caldo con buon "parmigiano" abbondante.
BERTO SECONDO RENATO SIMONI
(Articolo sul Corriere della Sera del 1950)
Penso a Berto Barbarani. Una viva e bella e commossa evocazione del poeta veronese, pubblicata ora da Lionello Fiumi (Venezia: Zanetti) mi risuscita nella memoria, non la cara e non mai dimenticabile figura del poeta negli anni della sua maturità, ma i primi passi di Berto. A tre di essi: la prima dedizione alla poesia, i primi esperimenti di giornalismo, e i primi viaggi fuori di Verona, verso una ammirazione affettuosamente fedele che il poeta era certo di trovare acclamante e, in certo modo, confidenziale in ogni città, dovunque si recasse a recitare i suoi versi, io ho assistito. I primi versi erano da ragazzone malizioso con ingenuità. Alto, allampanato, riprodotto nelle caricature di allora con i petto in fuori e il ventre che si ritirava e con un bel cappellone e un bel soprabito rasato. Davanti a lui io ero (non soltanto scrivendo, ma anche vivendo) uno scugnizzo. Egli, di famiglia di negozianti in rustici arnesi di ferro, finito il liceo assisteva un poco la madre, una povera donnona sempre aggirantesi per la sua bottega, che non aveva vetrate ma porte aperte a tuti i venti, a maneggiare, anche d’inverno e coi geloni crudamente scoperti, il gelido duro ferro: reggeva, stanca di reggerlo, stando sempre in piedi, il suo corpo pesante, e portava per lo più un fazzoletto a fioram in testa. Da esso sfuggivano i capelli spettinati e fuligginosi: e, sotto di esso, s’allargava la faccia grassa dolente, come ammaccata dagli anni.
Da sola, rimovendo zappe, badili, catene, martelli, tenaglie, fili di ferro, serrature, catenacci, tenne in piedi la famiglia. Il suo primo genito, alto e pallido, s’era laureato in medicina; morì lasciando bimbi, fiaccato dal mal di petto; Berto non si decideva a iscriversi nella facoltà di legge all’ università di Padova; o, se si iscrisse, frequentò poco le aule e le vie che erano ancora poco fusinatiane. Stava a Verona, qualche ora tra i ferramenti, qualche altra errando e guardandosi in giro e scrivendo versi italiani un poco stecchettiani, da giornaletti settimanali. Poi si mutò; non fu più un distrattone ben vestito che recitava agli amici i sonetti maliziosi fino a sfiorare il doppio senso. Era divenuto poco a poco, povero nell’anima: cioè si fece un’anima che poteva capire tutto quello che sentono e pensano i poveri;e la sua città nativa, stupenda, ri costruiva per lui intorno a quella popolazione che gli era prediletta; il popolo schietto e semplice, gaio e povero, o povero fino alla disperazione. Senza giudicare il pro e il contro, scoprì, per sè e per tutti.
Verona nella sua più vera realtà; onestamente, giovenilmente, musicalmente giovine, con le primavere e gli autunni corsi nei cieli da ilari o da soavi immaginazioni; città vivacissima con molti poveri pazientemente sereni, con molte tristezze da consolare anche col canto. E allora abbiamo visto nascere, e toccò a me il privilegio di scriverne per il primo perché quelle di Berto erano il tesoro della nostra amicizia. In quel tempo ho indotto Berto a entrare nella redazione del giornale l’Adige, dove, poco più che ventenne, io ero un veterano.
Egli non voleva accettare. Aveva di tanto in tanto incomprensibili fobie. Sua madre non bastava più alle fatiche della bottega; il fratello era un medico condotto a pie’ dei monti fortificati della Chiusa; il giornalismo avrebbe significato per Berto uno stipendietto, 60 o 70 lire mensili; che erano tantine, specialmente per lui che, a casa, il desinare quieto lo trovava sempre in tavola. Le 60 o 70 lire bastavano per i quintini, i riposetti pensosi nelle osterie, col gotto davanti e il messo toscano spento. Ma non so quali riluttanze lo tenevano lontano dal giornalismo, verso il quale lo spingevano anche Dall’Oca e il direttore dell’Adige, Antonio Libretti che aveva stampato a spese proprie, in pura perdita, El Rosario del cor. Alla fine, vincemmo. Berto cominciò a lavorare al giornale. Vi giungeva tardissimo, all’ una, alle due di notte (allora i giornali di provincia andavano in macchina con comodità di tutti; non avevano la possibilità di perdere treni perché viaggiavano poco), si imbucava davanti a una tavola in un angolo, e talvolta sospirava: <<Fioi, go bisogno de afeto>>; un giorno fece al giornale e al pubblico lo scherzo serio di scrivere in versetti le cronachette delle contravvenzioni o dei litigi in piazze delle Erbe. Da prima inorridimmo; poi fu una gioia per tutti, anche per il pubblico. Così attraverso le rime Berto si conciliò col giornalismo, che non lasciò più. Alcuni anni dopo, chiamato a Milano a scrivere di teatro in un giornale nuovo diretto da Raffaele Gianderini,
Il Tempo, comunicai, a poco a poco, ai miei nuovi amici, l’entusiasmo per Berto. Ripetevo i suoi versi, che erano quelli del Rosario e d’un volume di sonetti descrittivi I pitocchi; e dalli e dalli, con l’aiuto di un caro poeta milanese, Gaetano Crespi, la Famiglia artistica, ove si adunavano i più grandi pittori di allora, dal nero, silenzioso, povero e glorioso Longoni al grande Tallone padre, che ha trasmesso tanta e sì varia novità d’ingegno nei figli, e ove appariva e spariva Gustavo Macchi, chiamò Berto a recitare i suoi versi sul palcoscenico del Teatro Milanese. La recitazione di versi aveva già avuto un superbo precedente: Pascarella aveva <<narrato>> i sonetti di La scoperta dell’America dai maggiori palcoscenici d’Italia. Ma pareva che tale eccezione fosse riserbata ai poeti celebri, Berto era celebre a Verona; a Milano poco si sapeva di lui e della sua arte. Al teatro Milanese, da anni Ferravilla non recitava più. In quel teatrino, che aveva l’ingresso per il pubblico in fondo a un cortile, s’avvicendavano Davide Carnaghi con Bice Rozen e il Grossi con la Signora Revel. Per una sera la musa milanese tacque e parlò la musa veronese. Dopo dieci minuti, quel convegno che era cominciato come una piccola accademia, si trasformò in una specie di felicità vivente, goduta da due o trecento persone. Lo stupore fu grande; applausi anzi acclamazioni; e subito centinaia di amicizie con Berto che duravano ancora vive quando, prima della guerra, egli tornava a Milano, vecchio, sconsolato, taciturno, accompagnato sempre dalla provvida tenerezza di sua moglie. Per anni e anni Berto pipetè i suoi versi; in tutte le città d’Italia, chiamato, atteso, adorato; e talvolta formò un’équipe con Trilussa e con Testoni, e col Crespi, desiderata e trionfante da pertutto. Era per Berto, una continua gioia sollevata a serene silenziose e assaporate solitudini da qualche bicchiere di vino tondo veronese. Poi ho visto Berto come smarrito entro la vita, con le orecchie pallide, quasi trasparenti e gli occhi nerissimi che s’appuntavano sulle cose ma le vedevano poco. Poi sua moglie, la sua fida, amatae amante e rassicurante compagna morì; e il poeta quasi cieco, rimase nell’ombra tra gli amici; ma la sua anima era già via. E nei giorni degli ultimi bombardamenti fu portato in ospedale; e vi morì. In un altro ospedale era stato da giovine; quand’era di leva, e prima di esonerarlo dal servizio militare, la commissione lo mandò all’ospedale militare in osservazione. Com’era allegro allora! Quando andai a trovarlo mi disse: << Sai che un ufficiale può dire attendente attendimi, in una parola sola? Eccola: attendentimi >>.E rideva di questa sciocchezza, come rideva Giacomo Puccini quando chiedeva: << Come si può dire, con una sola parola, che alcuni sarti si sono uniti a mezzogiorno a mensa?>> Nessuno sapeva rispondere il Maestro serio serio esclamava: <<E’ tanto semplice! Basta dire: disarticolazione>>. Renato Simoni
Foto: "una piazza ben difesa e mal intesa" Angelo Dall'Oca Bianca in Piassa Erbe; Berto su sfondo Verde, primi del '900. Foto: "Avio redenta" Berto vestìdo in completo colór carta da sùcaro nel 1901; B/N co' Trilussa, Testoni e Barbarani; a colori el trio dei poeti; le do foto de Berto colór gialìn, primi del '900. Foto: "In valpolicella" Berto da Butèl co' giachéta verdesìna; Foto: "L'Italia che scrive" sèra létara; disegno in B/N co' el trio dei poeti. Foto:Berto tra i ruderi del Castel Canossa 1926 - Rivista Verona e il Garda marso 1940
Ruggero Dondè e Barbarani
Al Mu.Ba. Museo Barbarani, podì catàr la scultura dedicà a Berto de Ruggero Dondè. Questo artista l'è nato a Rimini el 20 dugno 1878 ma a diése ani el s'a trasferì a Verona. Visto che fin da buteléto ghe piaséa disegnàr el s'a iscrito a l'Academia Cignaroli 'ndóe sóto el maestro scultór Romeo Cristani, el g'a otegnù i primi riconossimenti. Nel tempo s'a visto Ruggero parteçipàr a le varie esposissioni e biennali de bèle arti otegnéndo grande risultadi e complimenti.
Uno dei so primi laóri publiçi l'è stà la lapide de Oliosi de Castélnóvo del Garda par comemoràr la batàlia risorgimentàl. Nel tempo s'a visto tanti laóri co' la so firma ai Monumentàl de Verona "Du leoni" e quél in particolàr de Peschiera dedicà ai Martiri de l'Indipendensa nel 1913 intitolà quando l'è stà possissionà nel 1919 anca ai Caduti de la prima Guera mondiàl 'ndóe tra l'altro, el g'a parteçiupà come soldà. Podémo dir che quél de Peschiera l'è el primo monumento de la prima guera mondiàl de la provinçia veronese.
Nel 1921 l'è entrà a far parte de la presidensa de la Società de bele arti veronese come consiliér. El primo incarico come insegnante l'è stà a la Scóla de arte aplicà a l’industria poi a l’Academia Cignaroli, ndóe l'è deventà socio. Ma la so arte l'è seità anca dopo la guéra co' ritrati e l'arte funeraria sensa contàr le tante parteçipassioni a concorsi nassionàli. Par la Cassa de Risparmio de Verona el g'a realisà una targa par i dipendenti morti in guéra. Dopo la Seconda Guera Mondiàl el g'a fato el ritrato de Odorico Viana par la maternità de l'ospedàl de Borgo Trento e quél de Giacomo Matteotti in piassa Indipendensa. Ruggero el se smorsa el 3 luio del 1957 e portà al Monumentàl 'ndóe su la tomba podì catàr un bassorilievo co' sóra el so ritràto fato da lu. Misure Altessa: 25.5 cm - Larghessa: 40 cm - Diametro: 4 cm - 40.5 cm - 55.7 cm - Galleria Forti... a cura de Andrea Diretor Toffaletti.
Berto e la violensa su le dòne
Ne la poesia Barbaraniana podémo catàr dei fati veri o ispirà a un calcossa de sucesso, defàti Berto, quando el laoràva al Gazzettino el faséa do passi nel vissìn Tribunàl, par catàr materiàl par i so articoli nei vari processi. El più de le 'òlte voléa darghe 'na seconda possibilità a ci vegnéa condanà e l'è in quél momento, che iè nate le poesie, oltre i articoli par el giornàl e soratuto l'amór par i "ultimi", come el "Campanàr de Avesa" "La serva disonorada" e "Carboneta". Se analisémo 'ste ultime dó poesie, Berto el ne porta nel mondo de le dòne; i è presenti el tema de la dona come èssar umàn in tuti i so particolari co' i bèi òci neri e i cavéi rissi, la dona che prima de èssar tal l'éra 'na bùtela co' i so sogni ma che la vién violentà da un òmo sensa scrupoli e la dòna che deventa mama. "Carboneta" vién mandà a laoràr a la filanda da so pare visto che so mare l'éra malà, ma Una note, de scondon, el capo sala el l’à butà par tera, soto un mucio de bale de coton... La butèla s'a malà dopo avér subì la violensa gh’è vegnudo tanto mal al cor, che l’à ridota come una candela, come una rama che l’à perso el fior e tuto finisse in tragedia Maledeta filanda! A passo a passo, quel’ingranaio che l’onor g’à tolto, quel’ingranaio el g’à robado un brasso!... "La serva disonorada", l'è la storia de 'na póra butèla sensa schèi che l'è finìa tra le mane de un militàr che g'a promesso mari e monti. Una parola ancó, 'na cartolina ilustrata coi fiori e i amorini, doman ’na carta de confeti fini, più che se pol, ciamarla: signorina! La serva, tal Margarita, dopo quéla nòte, el giorno dopo, ne la so inocensa, la serveta la parla de sentirse portada de andar monega vestirse col santo velo de la penitensa... El problema l'è, che'l militàr l'è scapa in licensa lassandola sola a spetàr la nassita del butìn. Cossita Berto el ne fa la cronaca da la Corte d'Assise 'ndóe paréa che la poaréta la finisse in galèra parché avendo messo al mondo un infelice, lo ha fatto scomparir di contrabbando... A la fine, el processo finisse bén e la se sposa co' un vedovo. de quei de boca bona, con case e campi in sposa la dimanda... More la serva e nasse la parona! Come émo visto, anca ne la poesia de Berto Barbarani se parla de un tema cossita importante come quél de la violénsa su le dòne... a cura de Andrea Toffaletti
500 Cavalieri in Val D'Alpón
Pochi i conósse bén la poesia Barbaraniana e noàntri vé démo 'na man par intràr in 'sto magico mondo. Tra le curiosità piassè curiose, segnalémo quéla piassè interessante, che catémo ne "La Canonica de Sant'Alberto" del 1915, 'ndóe se respira l'aria de la Val d'Alpón ne la staión de le çirése. El poeta ne le so righe, el méte in relassión la belessa de 'na bùtela co' le sirésa, in uno scambio tra realtà e fóla, 'ndóe Berto devénta un cavaliér che vol conquistàr la so dama "Eco, adesso desmonto da caval, pianto el comando in testa al siresàro. e ve baso la boca de veludo, che no ’l soni un pecato ma... un saludo!". La bùtela in questión ne la poesia, l'è Dona Ciaréta neóda de un prete, tal Don Cicio. El nostro cavaliér faséa pensieri "impuri" ne la canonica de Sant'Alberto, pronto a dimandàr la grassia par 'sto motivo. Parlando de cavaliér e dama, Berto el méte in relassión anca una famosa filastròca che se cantava da buteléti co' drénto un indovinèl che catémo ne l'undicesima otava "L’era nata da quà la indovinela, che à fato el giro de l’età beata: quei çinquessento cavalieri in sela, co i brassi verdi e testa insanguinata, che quando i combateva a spada trata, drento un stòmego forte de putèla, ghe voleva el dotor del so paese, par la batalia abùa co le sirese!". Fórsi voialtri avì sentì «Alto, alto, belvedere, cinquecento cavaliere, con la spada ritirata e la testa insanguinata». La vostra memoria l'è ritornà, èlo véra? L'è curioso come Berto l'è riussìdo a mètar insiéme la filastroca, la dama e i cavalieri in una poesia, ma questo l'è el genio del nostro Barbarani.... a cura de Andrea Toffaletti
Òmo e can, Bubù e Siór Momo
Drénto a "La dimanda de Nòsse" catémo "L'ombra de Bubù" presente nel secondo Cansoniér, 'ndóe Berto l'è pronto a dimandàr la man de la so Nina restà sensa mama e bupà ma in compagnia de so noni. Quando l'è entrà in casa, paréa de 'nar a 'n òbito, convinto, che fusse sucessa 'na desgrassia o fusse morto un parente. I noni de la Nina, ne la Dimanda de nosse, no i fa capìr a Berto che i stava parlando del can, verità che salta fóra poco dopo, a disnàr, quando el poeta ciama Bubù butandoghe "l'òsséto" del capón. La poesia "L'Ombra de Bubù" l'è el spècio de la nostra società anca del dì de ancó, co' el can che devénta piassè importante del parón.
Par ci no g'a un can, el vede de bòto, i modi gentili dei paroni, piassè dolsi de un chilo de sùcaro rispèto a quéi che i g'a co' i propi fiói. Berto secondo el siór Momo, nono de la Nina, no'l g'a rispèto de Bubù 'pena morto, el dovarìa quasi dimandàr scusa e inzenociàrse. Un can che faséa parte de l'alta società «Bubù, così santo a basini, sapiensa de nastri e de udori, che dava satina a i signori de l'alta e più sic società», che podéa partìr, come fa un èssar umàn, par el servissio militàr «Bubù, che el g'avea disdot'ani che quasi l'andava a soldà».
Soratuto l'éra piassè importante de tuti i altri cani, parché ci g'a un can, el propio, l'è sempre el mèio «così che la classe de i cani l'ha messo su el luto in çità?». No savémo se Berto el g'a visto la sèna da calche parte o no ghe piaséa i cani, ma el confronto tra can e òmo nei usi e costumi l'è incredibile, una fusión de gesti e assioni. Bubù che podéa deventàr ingegnér o dotór «che l'ambiva a un colegio da farse 'na gloria ben fissa» che g'avéa un pòsto in césa «al par de qualunque cristian». Par el Siór Momo ghe par impossibile «de çercar la novissa in casa de un simile can?» un simile can, no de un Conte. A la fine la Nina l'è de Berto ma el Bubù secondo el poeta, deventa una divinità par un adorassión perpetua «tuto sgonfo de paia, me guarda dal mondo de là!». .... a cura de Andrea Toffaletti
El mar e Berto
Tra le curiosità del nostro Berto Barbarani ghe n'è una in particolàr che ne parla del mar. Nel nostro Museo dedicà al poeta, gh'è una diesìna cartoline spedì nel 1900 a una tal Maria, che sistemàde in ordine una dopo l'altra, le dà vita a una poesia dedicà a Venessia. Quéle righe dopo avérghe messo man le catémo nel "Quarto Canzoniere" quasi quarant'ani dopo, in "Sogno de un veronese a Venessia". Ma cosa gh'è de strano?
Ne la cartolina nùmaro diése se lése che Berto l'è stà a Venessia in compagnia de Maria e de Giovanni e par celebràr quéle giornade passade in amicissia el g'a scrito dei vèrsi. Berto, du ani dopo, dise de no aver mai visto el mar, come riportà ne la publicassión "Novissima" del 1901 "Albo anuàl d'arti e létare" stampà a Milàn nel 1902 e dedicà a l'Art nouveau, 'ndóe vién tratà el tema del mar, co' quadri, sculture, articoli e poesie dei piassè grandi artisti italiani. Ne la parte dedicà ai dialèti a pag.48 catémo: "Manca il dialetto veneto. Interpellato il poeta Berto Barbarani risponde inviando La Cansón del Pipa (che pubblichiamo in altra parte - pag.126) e dichiara di non scrivere sul Mare che vide forse una volta, e nemmeno lo potrebbe giurare".
Ricordémo che, el "Primo Canzoniere" l'è stà stampa a Milàn nel 1900 dopo la visita a la "Faméia Artistica Milanese" e quindi Berto l'éra bén conossù anca fóra da Verona, par 'sto motivo la so poesia no podéa mancàr, defàti "La Cansón de la Pipa" no dovéa èssar su una publicassion che parlava de mar, ma vista l'importansa del poeta, una so òpara la dovéa èssar comunque presente. Un curiosità de la "La Cansón de la Pipa" l'è, che solo dies'ani dopo, l'è stà inserìda in uno dei "Canzonieri" e precisamente nel Secondo Canzoniere ma drénto a la poesia "Cansone de Autuno". Cissà parché Berto no'l gà volù spedìr i versi "venessiani" a "Novissima" che parò catémo a la fine de la so vita poetica. Forsi, come sucesso par el Giulieta e Romeo stampà in tre versioni dal 1905 al 1941, la poesia la dovéa èssar sistemà e rivàr a la perfessión.
L'unico vèrso che parla de mar, comunque ne "la Cansón de la pipa" l'è: "O ciosota pipa mia, can da cassa dei pensieri", la famosa pipa in tèracòta dei pescadori de Ciòsa (Chioggia). A Berto ghe piaséa Venessia ma no el mar, mèio le montagne par le so scampagnade in compagnia de l'amigo Angelo Dall'Oca Bianca. a cura de Andrea Diretor Toffaletti.
Berto e la beneficensa
El "Cantór de Verona" l'era conossù in tuta Italia e ritegnù uno dei piassè grandi poeti dialetàli d'italia, in compagnia del romàn Trilussa e del bolognese Testoni. Tra le regioni piassè visitade da Berto gh'éra anca el Friuli V.G. defàti su "Il Paese" n.285 del 1907 catémo un calcossa de veramente particolàr nel mese de decémbre: "Doveva aver luogo domani, ma, com'è noto, l'illustra poeta ha dovuto rimandarla per recarsi a Trento a compiere un'opera di bontà a favore dei danneggiati dal terremoto di Calabria. Avremmo preferito destinare alla recitazione un sabato, giornata in cui il concorso delle classe lavoratrici è maggiore, e ciò perchè la musa di Berto Barbarani è eminentemente educativa e popolare. Ma sabato 7 dicembre il Teatro Minerva è impegnato pel corso di recita della Compagnia Paladini. La recitazione avrà dunque luogo venerdì 6 dicembre, e tale data è irrevocabile. Pubblicheremo il programma non appena il gentile poeta veronese ce lo invierà." L'articolo el fa riferimento al teremoto de l'otobre 1907 du ani dopo quél'altro scurlón del 1905 sempre in Calabria. Berto in compagnia de altri artisti, el g'a preferì contribuìr co' la so presensa a la "causa" calabrese, tiràndo su quatro schèi co' un bèl spètacolo, pitòsto de métarse quatro schèi in scàrsela in Friuli. Qua se véde tuta la bontà de Berto e la sensibilità par i "pitòchi".. a cura de Andrea Diretor Toffaletti.
Statua del scultór Novello Finotti dedicà a Berto (2004)